Fotografia e Diritti Umani
Per diritti umani si intendono quei diritti universali alle libertà fondamentali civili, politiche, sociali, economiche che spettano ad ogni individuo sin dalla nascita. In questo blog si intendono raccontare, attraverso la fotografia, piccole storie di diritti umani. Esempi positivi che testimoniano il desiderio di migliorare, l’anelito a trasformare una situazione, la possibilità di ribaltare una circostanza di vita, anche se attraverso percorsi tortuosi e battaglie lente e impercettibili.
sabato 25 giugno 2022
Barre, Vermont. Queste fotografie sono state scattate all’interno di una fabbrica che produce tombe nella cittadina di barre in Vermont, una specie di Dogville del marmo e della morte. La storia di questo posto è densa di mistero e suspence. Qui vive una comunità di anarchici italiani trasferitisi a fine ‘800. La maggior parte di questi emigranti erano scultori, artigiani provenienti da Massa Carrara e zone limitrofe, decisi ad emigrare in America in cerca di fortuna, e in particolare in questa zona perché ricca di granito e marmo. La fortuna la trovarono, ma trovarono anche ostilità da parte della comunità locale che si trasformò presto in rivalità e scontri all’interno della stessa comunità di italiani, fino ad arrivare all'uccisione di Elia Corti, delitto intorno al quale vi sono ancora molti punti interrogativi. All’interno di questo giallo, l’aspetto piu’ sconvolgente di questa cittadina è la trasformazione di questi emigranti scultori in costruttori di tombe. Da padre in figlio, da artisti e artigiani in tombaroli. Barre è un paese che vive sulla morte (forse si potrebbe dire dell’America in generale, ma a Barre ciò è più evidente in quanto in una città così piccola esistono molti centri di reclutamento, fabbriche di tombe e un cimitero imponente per un paesino così piccolo). In particolare questa fabbrica ha contratti decennali con il governo per la costruzione delle tombe dei caduti in guerra dalle quali trae il 30 per cento del fatturato. Insomma, qui le persone vengono arruolate, mandate a morire e nel frattempo ne vengono costruite le tombe.
giovedì 23 giugno 2022
Donne Kurdistan Turco. Ritratti e interviste che immortalano donne curde impegnate nella causa per la libertà del Kurdistan e allo stesso tempo nella ricerca della via per esprimere i propri diritti in quanto donne e cittadine.
Sono nata a Djarbakir. Quando avevo 4 anni la mia famiglia è andata a Istanbul. Mio padre era avvocato a Siverek. Mio padre era già stato arrestato prima del 1980 anno in cui ci fu il pericolo di un colpo di stato. Nel 1992 mio padre ha lasciato per la prima volta la Turchia per andare ad una conferenza. I gendarmi sono andati a cercarlo dai familiari e lui non è mai più potuto tornare. In Germania ha lavorato per un giornale curdo. È stato a Bruxelles in parlamento dai curdi in esilio. Vorrebbe tornare ma non può perchè è rifugiato politico. Non parla bene il Tedesco. Mia madre vive tra la Germania e la Turchia, non lavora e vive facendo avanti e indietro. Io sono tornata dalla Germania recentemente (settembre 2006). Mi sento bene qui. Mi piace il mio lavoro. Mio padre potrebbe tornare a condizione di dichiarare le sue scuse allo stato turco (pentimento). Ma non vuole. Ci vorrebbe un’amnistia generale per far entrare tutti i curdi.
L'associazione Selis ha come obiettivo l’eguaglianza delle donne e la questione curda. Le donne membro fanno parte del partito. Si tratta di un libero movimento democratico che riunisce donne per lavorare su queste due questioni.
- Political side
- Social side
- Educational side
- City women council (in futuro)
- Giovani donne dell’università
Io credo che le donne curde abbiamo maggiori difficoltà rispetto alle donne turche; questi problemi sono dettati dalla loro identità curda e dai problemi femminili. Dopo il 1994, il 5% dei prigionieri erano donne. Il DTP è rappresentato in parlamento da 20 persone di cui otto sono donne.
Selis è un’associazione che svolge un’azione di coordinamento tra tutte le associazioni che si occupano di questo problema. Aveva finanziamenti dall’Unione Europea per progetti di assistenza a donne vittime di violenza ma poi sono stati tagliati i finanziamenti dell’Unione Europea.
Sara Aktas, membro dell’associazione Selis, responsabile per la città di Dyarbakir.
Ho studiato ingegneria e poi sono diventata giornalista. Ho sentito la responsabilità di fare qualcosa per il mio paese e di entrare in contatto con donne e bambini in difficoltà.
Scrivo per giornali come (Stern, Le monde, Der Spiegel). E’ da Quattro anni che esercito questa professione. Non scrivo daily news ma quasi ed esclusivamente di questioni legate alle donne. Cerco anche di sviluppare progetti sociali per donne e bambini. Vivo con la mia famiglia (siamo sette figli ma solo in quattro viviamo con la famiglia). Ero fidanzata ma ora non lo sono più. Non so se mi sposerò o meno.
La condizione della donna è assai diversa da quella di trent’anni fa. Andiamo all’università, lavoriamo, studiamo. E’ in atto un processo di emancipazione molto lento in quanto deve smantellare millenni di regole e convenzioni.
E’ paradossale che io sia stata all’estero dove ho guadagnato i miei soldi ed ero indipendente e adesso che sono qui devo chiamare mia madre tre volte al giorno, non posso bere e non posso uscire la sera dopo le dieci. Posso andare ad Istanbul, ma la mia famiglia non vuole che io la sera esca dopo le dieci in quanto poi la gente pensa male. Sono contraddizioni enormi.
Ho studiato ingegneria prima ad Ankara e poi in Virginia. Successivamente sono tornata a vivere qui con la mia famiglia. All’inizio è stato molto difficile poi ho trovato dei compromessi che mi hanno fatto stare meglio. Ad esempio posso stare fuori la sera fino alle dieci e stare a dormire fuori da amici 4 0 5 volte al mese.
Sono tornata qui perchè sentivo di dovermi occupare della causa curda. Con degli amici che hanno studiato fuori ho iniziato ad impegnarmi per il mio paese, per le donne e per i bambini. Poi la municipalità si è accorta di noi e così ho iniziato a lavorare per la municipalità.
Il mio più grande desiderio è quello di poter fare politica, ma non ho esperienza o un background accademico. Non vorrei fare pubbliche relazioni, ma vorrei elaborare teorie politiche. Vorrei scrivere di politica. Per questo vorrei andare a studiare fuori tre o quattro anni.
Per il mio paese…la situazione del mio paese è il mio incubo e allo stesso tempo il mio sogno. Ogni piacere della vita diventa secondario di fronte a questo problema. Sogno un paese verde e blu con la pace. Lavorare per la pace è l’unico modo per riuscire a stare in Kurdistan.
Se vado via devo farlo con un obiettivo preciso, altrimenti rischio di non tornare più. La mia famiglia non vuole che io vada a studiare all’estero, pertanto, io troverò i soldi per farlo da sola, ad esempio con una borsa di studio.”
Ozlem Yasak, 29 anni, giornalista free lance.
Lavoro da 15-20 anni nel movimento curdo. Non sono sposata. È una scelta di indipendenza.
Questo centro fa assistenza psicologica e corsi di formazione per donne. Ho visto numerosi casi di donne che sono andati a buon fine. Come ad esempio, una donna che hanno seguito per un anno e mezzo soffriva di depressione per amore.
Un’altra donna era stata violentata a 24 anni da un parente. Poi è andata a Istanbul dove si è ricostruita una vita e si messa a lavorare per donne che hanno subito una violenza. Una legge turca ha stabilito che ogni comune con più di 50.000 abitanti deve avere una casa per le donne vittime di violenza.
Problemi delle donne che si sono spostate dalle campagne (non possono lavorare, spesso parlano solo il curdo, magari violenza in famiglia etc etc).
Le donne curde hanno più problemi; spesso subiscono violenza per la situazione di Guerra.
Fanno anche attività per gli uomini; ad esempio il 25 novembre, giornata contro la violenza, parlano agli uomini.
Gajlar Demirel, 38 anni, Coordinatrice del centro Kardelen.
Insegno pittura e handycraft. Sono sposata con 3 figli.
Ho lavorato per diversi anni in un istituto pubblico. Vivo a Kardelen da 4 anni. Mio marito è tradizionale, quasi feudale; ho subito violenze da lui ma non posso lasciarlo perché comunque lui mi ritroverebbe (e qui si inserisce il discorso della mancanza di un vero rifugio per le donne). Mi sento comunque in qualche modo di natura emancipatae molto ottimista. Mi sono candidata in passato (senza essere scelta) al posto di muhtar, che è questa specie di sindaco locale che amministra un po' il quartiere a cui è preposto.
Pittrice e insegnante.
Madri per la Pace, associazione nata 19 anni fa. Composta da 50 madri in Diarbakir, che si battono contro la Guerra. La maggior parte di loro ha perso i figli in guerra oppure i figli sono in montagna oppure in prigione.
Le loro azioni vanno dal:
- cercare di incontrare il Primo Ministro
- cercano di parlare con i militari turchi
- cercano il dialogo con le madri turche (anche se le madri turche non vogliono incontrarli perchè dicono che sono madri di terroristi)
Tre di loro sono in prigione da 6 mesi per la loro attività politica.
Nel 2006, 24 madri hanno fatto una dimostrazione contro il governo.
La donna qui fotografata ha una figlia nel PKK e un fratello ucciso dai Turchi.
Sono originaria di Dyarbakir, ma ho fatto l’università a Merci dove ho studiato tourism administration. Ho quattro fratelli di cui uno in prigione e uno scappato in Germania. Le altre sei sorelle sono sposate. Io vivo con la famiglia. Mio fratello è finito in prigione per la sua attività politica e perchè era un militante del PKK. E’ stato condannato ad una pena detentiva di 36 anni e ne ha già fatti 15. Ci siamo avvicinati molto quando lui era in prigione e io ho cominciato a scrivergli lettere. Penso che sia un uomo molto intelligente. Lui studiava medicina prima di arruolarsi nel PKK. Io avevo pensato di entrare nel PKK quando avevo 15-16 anni. Una volta ho detto a mio fratello che non ero felice e che volevo raggiungere il PKK; lui mi ha solo detto che questa poteva essere una decisione solo mia ma che dovevo essere sicura della mia decisione. Mio fratello non ha mai rimpianto il suo destino, il fatto di essersi arruolato e poi finito in prigione.
Terminata l’università ho avuto un periodo estremamente difficile; vivere qui come donna non è affatto facile, dal punto di vista familiare, sociale e statale. La Guerra è molto più dura per le donne, che subiscono violenze maggiori dai militari come lo stupro, fatto per cui spesso dopo non riescono a farsi una famiglia.
Quando avevo 13 anni sono stata arrestata con mia mamma. Ci hanno torturato e molestato. Ci hanno rinchiuso in 50 persone in una stanza piccolissima e per tre giorni ci hanno lasciato senza cibo e acqua. Hanno anche toccato più volte il mio corpo. Non potevo credere che facessero questo ad una bambina di 13 anni. Il motivo per cui ci hanno arrestato è stata la protesta politica dei prigionieri durata 40 giorni. Le famiglie protestavano insieme a loro con lo sciopero del cibo e dell’acqua.
Io e mia madre siamo state arrestate. Subito dopo sono stata malissimo. Ora sto meglio anche se ho dei momenti molto difficili. Non potevo credere come potessero fare questo ad una bambina di 13 anni. Ma poi ho capito che erano folli.
Vorrei fare delle esperienze all’estero anche se vorrei vivere qui nonostante sia molto difficile. Amo questa cultura e la gente curda.
Purtroppo non vedo una grossa possibilità di cambiamento in Kurdistan anche se qualcosa si è mosso negli ultimi venti o trent’anni grazie all’azione del PKK. L’unica soluzione dal mio punto di vista è rimanere in contatto con Ocalan e il PKK.
La mia famiglia vorrebbe che io rimanessi a casa con loro e che non andassi a vivere fuori. Per adesso non voglio sposarmi ma forse in futuro cambierò idea.
Voglio una vita in cui nessuno possa impedirmi di prendere le mie decisioni. Voglio poter fare le mie scelte senza essere forzata da niente e da nessuno.
“I want a life that nobody can stop me about my decisions. I want to make my personal decisions without the force of something or someone”.
Ipek, 22 anni, tourism administrator e guide of international delegations.
Sono andata via dal Kurdistan nel 96’. La mia famiglia è di origine di Urfa, ma sono nata e cresciuta a Sirt, il paese dove hanno distrutto la mia casa il 21 marzo del 94’, il giorno del capodanno curdo. I militari turchi sono arrivati e hanno impedito la festa e obbligato a spegnere il fuoco. I militari hanno costretto gli uomini a camminare sui carboni ardenti, tirati da altri curdi per gli organi sessuali. Un anziano è stato ucciso. Molti uomini sono stati portati via e le case sono state bruciate. Al loro ritorno molti uomini sono scappati verso la Turchia e l’Iraq senza niente. La mia famiglia è scappata ad Adama. Qui abbiamo cercato di stabilizzarci. In seguito i militari ci hanno detto che non potevamo stare lì. Mio padre ha minacciato i poliziotti di darsi fuoco con tutta la famiglia. Però abbiamo resistito e vissuto un anno in una tenda.
Io amavo cantare in curdo. Avevo creato un gruppo di ragazzi che suonava e cantava e questo corrispondeva al reato di separatismo. Il 21 marzo 95’ i poliziotti ci hanno portati via. Mi hanno arrestato, insieme a mio padre e altri, costringendoci a torture psicologiche e fisiche col bastone. Volevano che firmassimo dei fogli in cui ammettevamo le nostre colpe.
Urlavamo loro contro. Un ragazzo è addirittura morto d’infarto.
Poi hanno portato mio padre con gli occhi legati davanti a me e l’hanno torturato minacciandomi di ucciderlo nel caso in cui non avessi firmato. Viceversa hanno fatto con mio padre. Loro hanno deciso di non firmare.
Dopo quindici giorni siamo stati liberati in attesa del processo. Dal 92’ i turchi hanno portato avanti un’operazione per far scomparire i curdi. L’articolo 125 del codice penale implica il reato di separatismo. Prima del processo, la mia famiglia ha deciso di scappare e di andare in giro per la Turchia, nascondendosi nelle case.
I poliziotti turchi hanno iniziato a dare ai curdi passaporti finti su pagamento per mandarli via. A quel punto ho preso la decisione di andare via. Mi sono rifugiata a Spalato dove ho aspettato un mese da sola. Poi mi sono infila in un tir e mi sono ritrovata da sola a Milano.
Ho fatto delle ricerche con un giornalista sulle persone che avevano organizzato il viaggio (quel giornalista è stato arrestato a capodanno perchè aveva fatto il segno di vittoria e lo sciopero della fame). Ti consiglio di leggere “erano calde le mani”.
Da Milano sono venuta a Roma dove ho fatto richiesta di asilo politico e dove dopo sette mesi ho ottenuto il permesso di soggiorno.
I primi sei mesi del mio soggiorno ho dormito due ore al giorno. Ho passato tutte le sue giornate da sola. Mi svegliavo alle cinque del mattino a causa dell’insonnia e andavo a Piazza Vittorio a leggere. Soffrivo di insomnia e di ansia. Poi ho scoperto di essere ammalata di talassemia a causa delle bombe chimiche che hanno tirato vicino al mio paese; queste bombe hanno provocato delle mutazioni genetiche.
Ora mi trovo nella condizione di rifugiato politico, per cui secondo la Convenzione di Ginevra, godo di quasi tutti i diritti di un cittadino. I primi sei mesi di permanenza qui ho avuto una forte depressione, ma mi sono curata da sola trasformando la rabbia in una forza costruttiva.
Ho imparato la lingua italiana da sola e ho cominciato a lavorare per il mio paese. Ho Lavorato per undici anni. Il mio obiettivo è proprio questo, quello di uscire dalla depressione e lavorare per il mio paese.
Il mio sogno è quello di far costruire un centro sanitario in Iraq dove sono scappati i curdi e anche quello di lavorare per la causa curda ad un livello più alto.
Hevi
Sono in Italia da Febbraio 2008. Sono venuta qui da sola e ho raggiunto mio fratello che era già qui. Ho tre fratelli di cui due sono morti. La mia famiglia era perseguitata. Due fratelli facevano parte della guerriglia. Lavoravo per il partito curdo. Ho lasciato mia madre anziana lì il 19/1/08.
Un poliziotto è venuto e mi ha portata in tribunale. Poi mi hanno lasciata libera dicendo di ritornare dopo qualche giorno. Ma sono scappata in Europa. Adesso sono in attesa del permesso di asilo. Sono andata in pulmann ad Ismir e poi ad Ismir sono salita su un camion col quale sono arrivata in Europa l’11/2/08.
Ho paura dei poliziotti ed sono stressata. Voglio stare qua, non voglio tornare in Turchia. Mia madre è in ospedale; soffre di ipertensione.
Non vedo alcuna possibilità di risolvere la questione kurda adesso.
Il mio più grosso desiderio:
“Vorrei vivere libera e vorrei vedere il Kurdistan libero. Io sono qui e sono tranquilla e libera. Mentre in Kurdistan avevo paura di non arrivare alla sera. Questa è la più grande libertà per me”.
Hanno ammazzato mio fratello davanti ai miei occhi e hanno dato fuoco alla mia casa.
Ho rivisto mio fratello dopo 7 anni e l’ho riempito di baci e di abbracci.
Osel Gaide, 40 anni
martedì 7 aprile 2015
Asilo Politico, Todi, 2015.
Caritas e Istituto Agrario hanno dato alla luce il progetto “Asylon”, che si propone di attivare percorsi formativi per queste persone (minori inclusi), durante il loro periodo di permanenza in accoglienza. I percorsi formativi sono realizzati dall'Istituto Agrario di Todi e includono sia i corsi di qualificazione professionale, sia i percorsi di studio quinquennali, per l'ottenimento del diploma, in regime di convitto per tutto il periodo scolastico.
I richiedenti asilo sono stati inoltre coinvolti nella produzione del Grechetto di Todi Doc, vino bianco che ogni anno viene prodotto e commercializzato dall'azienda agricola annessa all'Istituto Agrario. I proventi della vendita vengono interamente destinati al finanziamento dei percorsi formativi per rifugiati.
Inoltre è stata stipulato un accordo tra la Caritas e il Comune di Todi che vede settimanalmente impegnati alcuni dei ragazzi ospiti del Centro nella pulizia del parco della Rocca di Todi.
Se c’è una cosa che ho imparato dalla loro amicizia è che chi sopravvive a un naufragio in cui ha assistito impotente alla morte dei propri cari, dei propri amici, dei propri compagni, dei propri figli, non riesco più a liberarsi da quell’immenso dolore. Ne rimangono impregnati il volto, la voce, la vita. Quel dolore è inscalfibile e intraducibile, ancor più inscalfibile e intraducibile quando non incontra altro che silenzio e indifferenza.
Alessandro Leogrande, La Frontiera
Quando si viene cacciati dalla terra in cui si è nati, quando si perdono affetti e amici, non per questo, però, non perché non ci sia alcun Omero a ordire la via che ci riavvicina a ciò che si è perduto e a cui siamo legati, non perché non ci vengono concessi viaggi decennali da intraprendere, canti delle sirene da cui difendersi o giganti da accecare, ci si può concedere di rinunciare ad un altro viaggio, un nuovo viaggio che faccia in modo che la vita, nonostante tutto, torni ad accadere.
Federico Pace, Controvento
Cosa fai quando non puoi partire e non puoi tornare?
Hisham Matar, Il ritorno