Questo
progetto, realizzato in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia e
con la Fondazione Diart di Arte Contemporanea di Trapani, intende raccontare la
vita all'interno delle realtà carcerarie femminili italiane ponendo una
particolare attenzione al corpo delle detenute. Uno degli aspetti fondamentali
del benessere psico-fisico e dell'autostima delle donne è quello della cura e
del rispetto del proprio corpo, cosa che, in un ambiente carcerario, presuppone
una notevole forza di volontà, costanza e determinazione a non lasciarsi
andare.
E’
difficile immaginare che una persona che deve passare mesi o anni in carcere
riesca in qualche modo ad avere un buon rapporto con se stessa e con la propria
identità. Ci sono donne che si alzano, si lavano e si rimettono in pigiama. Il
corpo diventa, pertanto, un metro di misura e di comprensione del livello di
sofferenza, ma anche della capacità di reagire e di attivare le proprie risorse
fisiche e psicologiche.
Dei miei primi giorni
in carcere ho immagini vaghe, annebbiate. Non volevo mangiare. Parlare era
troppo. Non riuscivo neanche a pensare. Poi, un giorno, finalmente ho pianto.
Ecco, questo è il mio primo ricordo.
(Estratto dalle interviste alle detenute)
Quando
sono al lavoro in mezzo alle lenzuola non mi sembra di stare in carcere, ma
piuttosto in albergo, in un mondo diverso…A tutto mi fa pensare, tranne che a
una chiusura…
(Estratto dalle interviste alle detenute)
Dalla mia cella vedo
delle case e un pezzo di strada. Mi affaccio solo di notte: tutti dormono e io
osservo il silenzio per ore…..
(Estratto dalle interviste alle detenute)
Roma,
12-10-08 (prima lettera di Sofia)
Cara Melania,
come ti ho
promesso, scrivo una lettera per te. Perdona mi il mio italiano imperfetto
purtroppo faccio ancora parecchi errori.
Sta notte, come
tante altre non riuscivo a dormire, fuori dalla finestra c’era una bellissima
luna. Improvviso ho sentito una feroce nostalgia delle mie montagne, dove la
luna sembra più grande, appesa a un cielo trasparente, accompagnata da migliaia
di stelle. Guardando quel cielo ti senti libero davvero, leggero, in perfetta
armonia con la natura.
Oggi è un mio
giorno “no”. Quando penso che ancora devono passare anni prima che potrò andare
a casa mia, mi sento male. Vorrei separare l’anima dal corpo, per volare
lontano, guardare tutti i miei cari per un attimo, per tornare poi con una
nuova forza a portare avanti la mia condanna. Eppure sta mattina mi sono
alzata, sono andata dai cani, poi a lavoro e adesso scrivo anche la lettera.
L’aspettativa di
permesso mi rende molto nervosa. Veramente già mi pento perché ho fatto la
domanda. E’ vero che voglio staccare un attimo da carcere e altro tanto vero,
che ho paura di uscire da qui. Dopo 4 anni di vita negli spazi limitati,
uscire all’aperto sarà un impresa difficile da superare. E poi, tempo di
aspettare, qui tutto va sul lungo. La mia domanda è partita a giugno. La mia
avvocatessa mi ha scritto una settimana fa, dicendo che nei prossimi giorni un magistrato deciderà il
mio permesso. I giorni passano e il permesso non arriva. Mi sento talmente
strana, come se fossi uscita da casa senza essere sicura di aver spento il fuoco
sotto il sugo. Non mi va di fare niente e nello stesso tempo sto facendo mille
cose. In momenti come questi vorrei tanto avere vicino i miei familiari, per
parlare un po’, consolarmi, anche per stare in silenzio insieme. E’ vero, scrivo
le lettere, però finche arrivano le risposte c’è silenzio, vuoto assoluto.
Passano gli anni e
ancora non ho trovato la voglia e il coraggio di fare amicizie. Qui è difficile
comunicare, la vita è “a vista”. Quello che dici, che fai, diventa di tutti. Si
parla, si parla, si fanno le cattiverie. Non dico che io sono meglio, sono un
po’ diversa. Rispetto tutti. La mia fragilità non mi permette di buttarmi in
chiacchiere, non ho voglia parlare di me con nessuno, voglio restare
nell’ombra. Credo ancora che sarà per sempre, litigo con me stessa, non riesco
ad accettare e a perdonarmi. Vorrei tornare in dietro, vorrei che non fosse
successo, vorrei…
Penso ai miei figli
che hanno la madre in carcere, alla più piccola che cresce senza di me. Quanto
tempo perso! In carcere il tempo purtroppo si ferma. Chi come me cade in
depressione e non ha la forza di combattere, perde tutto. Io dopo due anni in
“coma”, sto provando accettare la realtà anche se mi viene troppo difficile.
Ancora ci sono giorni bui, dove mi sembra che non ci sia nessuna speranza per
me; giorni in cui la cella diventa troppo piccola, da mancarti respiro, mi
viene quasi la claustrofobia e nello stesso tempo non voglio uscire perchè ho
paura di aprire la porta.
La cosa che mi
spaventa di più è il giorno di uscita definitiva. Affrontare faccia a faccia la
vita fuori, incontrare le persone, i vecchi amici, chissà se ancora tali,
rispondere alle domande, mi spaventa davvero. In Polonia sicuramente non
troverò un lavoro, e per questo penso di restare in Italia. Però da l’altra
parte, che colpa ha Kornelia, mia figlia? Anche lei vorrebbe avere la mamma finalmente per
se. Troppi perché, troppi dubbi, troppe incertezze. E non c’è anima viva che mi
potrebbe aiutare risolvere tutti questi problemi. Sono come un lupo solitario,
che cerca da solo di combattere con la vita. Questa vita da carcerata, che è
dura per la chiusura ma è bene per tanti altri motivi. Qui di sicuro se non ti
alzi da solo, non combatti, nessuno viene a tirarti su. Due anni sono stata in
“coma” imbottita di medicinali antidepressivi senza aver possibilità di parlare
con uno psicologo. E inutile dire che il carcere è il posto da dove si torna
migliori. Sono davvero pochi che escono responsabilizzati. Sono quelli che
riescono combattere da soli, che da soli cercano di cambiare la propria vita. E
poi non è vero, che in carcere finiscono solo i delinquenti. Ho commesso un
reato però non ci riesco definirmi un delinquente. Penso, soffro, riconosco il
bene dal male, mi comporto da persona educata come ero fuori, eppure mi sembra
tutto inutile. Riuscirò a perdonarmi mai? In tanto da qui esco pregiudicata,
con quel timbro di colpevolezza che mi accompagnerà per tutta la vita. E allora
per quale scopo faccio questa condanna?
Non sto bene per niente Melania. Spero tanto
di riuscire con il tempo a trovare le risposte giuste almeno per alcune di
queste domande. Per adesso andrò di nuovo alla finestra, metterò le mani sulla
grata e guarderò la luna, la stessa che brilla sulle mie montagne. Manderò un
pensiero alla mia lontana patria. Intanto hanno chiuso la cella. Per l’ennesima
volta sento il rumore delle chiavi e poi il silenzio, il tempo di solitudine
assoluta, il tempo per pensare con la speranza che questa notte il sonno
arriverà presto.
Ti saluto
Meli (così chiamo la mia nipotina)
La sera la cella viene
chiusa, e mia figlia soffre. Una volta ha gridato: agente, apri! E ha preparato
la borsa per andarsene.
(Estratto dalle interviste alle detenute)
Roma 01-11-08 (seconda lettera di Sofia)
Cara Meli!
Ho
ricevuto la tua
lettera, pur troppo non c’erano le foto, che hai scritto di inviarmi. Io
ancora
sto aspettando la famosa risposta alla domanda di permesso premio.
Sinceramente
non lo voglio più. Tutta la tensione che ho subito, l’avvocato che dice
questione di ore, il magistrato che dice che manca l’ok dei carabinieri
etc
etc… Mi sono stufata. Speravo di poter uscire per i santi, visto che i
miei non
lavorano, sarebbe bello stare insieme, però è andata male. E non fa
niente. E non
è la prima volta che le cose mi vanno storto, supererò anche questo. Al
di là
di quello che ci propone la vita, dobbiamo combattere, perchè di certo
non
abbiamo chiesto di avere una vita schifosa, di incontrare persone
cattive e di avere
esperienze così dure. Bisogna credere, che c’e ben altro, che magari
all’angolo della strada incontriamo la persona meravigliosa che ci
regalerà un
momento felice (se saremo in grado di dare la fiducia). E’ difficile per
le
persone provate dalla vita aprirsi, però è impossibile essere felici
senza
credere negli altri. Io purtroppo quando incontro le persone che sono
carine
con me subito penso: “che cosa vogliono”? E mi chiudo di scatto. Invece
di
darmi la possibilità di dialogare, di provare a sfruttare l’occasione
buona mi chiudo
subito. Sei la prima Meli a cui dico tutte queste cose, non lo so se
sono utili
per me, oppure un po’ per te, però riesco a farlo e penso che questo sia
una
cosa buona.
Vuoi
sapere che
cosa penso di un fotografo che viene a fare le fotografie in carcere? Il
compito di un fotografo è di catturare i momenti della vita, quelli
belli e
quelli brutti, e raccontare come ci vede con il suo occhio
professionale. E’ un
compito non facile, perchè la fotografia parla, trasmette la bellezza,
il
dolore, la gioia e tanti altri sentimenti. Il carcere è uno dei posti
dove il
miscuglio dei sentimenti e molto più intenso e dove è vietato entrare
con la
camera. Io penso che sarebbe utile far entrare un fotografo per un mese,
a
girare libero per le sezioni e scattare le foto liberamente. In momenti
quando
una detenuta gira per il ballatoio con lo sguardo perso nel vuoto, o
quando un'altra, tornando dalla causa, cammina sotto le infinite
gallerie e piange
disperatamente. Oppure quando due per un futile motivo iniziano a
litigare: le
bocca aperte, le facce deformate dalla rabbia, sputano le parolacce, e
poi
tante altre situazioni che per un fotografo sarebbero veramente un bel
servizio. Purtroppo il carcere è un tema tabù. Da qui esce solo quello
che è
bello. Viene un ministro? Si! Si fotografa alla grande. Viene Totti?
Ancora foto. La vera faccia del carcere rimane nell’ombra. Mai vista,
mai
fotografata. E' talmente vero, che quando arriva un fotografo si
truccano, si fanno
belle e si fanno fotografare in giardino vicino ad una pianta, magari ad
un fiore,
per poi inviare ai famigliari, come per dire: guardate come sto bene. Io
invece
vorrei tanto avere delle foto in cella per inviarle a mia figlia, perchè
a me
piace la verità. A che serve fare la finta? Sono in carcere e questa è
la brutta
realtà. Foto in bianco e nero perchè qui i colori sbiadiscono. Allora
cara
Meli vieni, fai le tue foto, cattura almeno quel poco della nostra vita
da
carcerati, fai vedere alla gente la fuori che anche qui c’e una vita.
E mandami queste
fotografie ti prego.
Non voglio vedere mio
figlio. Non voglio che entri qua dentro. Un giorno lo incontrerò in mezzo ai
giocattoli, in un giardino. Non qui.
Un giorno gli dirò la
verità: non voglio essere un fantasma per lui. Magari mi dirà che mi odia. E io
capirò.
(Estratto dalle interviste alle detenute)
Roma,
10-12-08 (terza lettera di Sofia)
Cara Meli,
è passato tempo da
quando si abbiamo viste. Solo adesso ho trovato la forza per scrivere. Sono
tornata dal permesso con adrenalina alle stelle e per smaltire le emozioni,
mettere tutto in giusto ordine ho impiegato tanto tempo. Meli, non lo so ancora
come ho fatto questa intervista. Oggi, sono sicura, non sarei capace di parlare
cosi apertamente con una persona estranea. Sara perché c’eri tu vicino, sarà
perchè ero ancora piena di emozioni, l’importante è che sono riuscita a farla.
Per me è un importante passo avanti. Fuori è stato molto bello, ho visto tutti
i miei figli, le mie montagne (dalla finestra tramite telecamera) i miei cani.
Nessuno aveva da ridire sul quel che è successo. Al contrario. Erano tutti
allegri, felici di poter parlare con me. Ho riconosciuto i miei ragazzi tali e
quali come erano sempre. E bene. Quando sono tornata ho iniziato a masticare
tutto di nuovo. Ogni parola, ogni gesto, in somma tutto. E sono rimasta stupita
in un certo senso. Perchè Meli, il mondo va come prima, la vita continua.
Perché allora io ho sofferto cosi tanto e sto soffrendo ancora, travolta da un
profondo senso di colpa, incapace non dico di dimenticare, ma almeno di
diminuire quel dolore? Forse fuori vivendo la vita normale sarà più facile? Qui
isolati, messi in riga tra apertura e chiusura siamo ridotti in un certo senso
ad un esercito di galeotti. C’e chi cerca di vivere un po’ diversamente,
impegnandosi in varie attività, e c’e chi perde il tempo proprio aspettando
l’apertura e la chiusura. Eppure ho avuto un momento durante il permesso in cui
volevo tornare “a casa”. 4 anni in carcere mi hanno disabituato alla vita
normale. Mi sentivo persa e fuori luogo.
Penso Meli, che
certe persone nascono per soffrire e non c’e niente da fare. Soffrono per vari
motivi. Come me che a 16
anni sono stata violentata, poi per amori sbagliati etc. Però proprio da quel
permesso penso: vale la pena? In tanto nessuno si ferma per dire: come stai?
Anche perchè le mie sofferenze le nascondo bene bene. Anche se te lo chiede lo
fa per convenzione. Qui c’e da fare Meli! Dobbiamo tirare fuori le unghie e
iniziare a combattere per la propria felicità. Certo i miei figli mi aiutano.
Circondata da tutti i miei figli, adorabili nipoti, sara più facile liberarsi
dalle ombre del passato.
Quando dico: ho 5
figli tutti rimangono stupiti. Pero io in questi momenti sento la 5 sonata di
Beethoven “Il destino che bussa”. Oggi i miei 5 figli portano una grande gioia
nella mia vita, anche se non posso stare con loro, abbiamo un legame forte, ci
capiamo in volo, e il nostro rapporto è meraviglioso.
Forza Meli! Anche
tu devi alzarti una mattina e dire: vecchia Meli non c’e più! Lasciare sotto
la doccia tutta la tensione e uscire credendo che la fuori ti aspettano le
persone nuove, magari anche queste che conosci già e che ti vogliono bene. Se
fuori piove non fa niente, butta l’ombrello, prendi la pioggia, senti il vento
tra il capelli, ridi, come ho fatto io oggi. E stata una sensazione
meravigliosa. Sono tornata bagnata come un pulcino e felicissima. Da tanto,
tanto tempo non mi sono sentivo cosi bene.
Scrivi un assegno
in bianco al mondo. Se riuscirai credere che il mondo ti vuole bene, uscirai
volere bene anche a te stessa. Non sono tutti cattivi, forse a noi capita
spesso incontrare questi. Pero non gettare le armi. Mi raccomando. Provare,
provare, provare…
Con tanto affetto
Baci
Sofia
N.B. l'ultima volta che ci siamo viste deve aver intuito che ero un po' giu' e la sua ipersensibilità l'ha portata ad aggiungere queste parole carine per me (Meli).
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