mercoledì 17 dicembre 2014

Ritratti per la Libertà (Italia e Kurdistan Turco 2008 - 2010).

Questo progetto - realizzato in collaborazione con l'Associazione UIKI di Roma che svolge attività di informazione, sensibilizzazione e denuncia delle violazioni dei diritti universali del popolo curdo - ritrae uomini e donne curdi impegnati personalmente per la causa della libertà del popolo curdo e per il riconoscimento del territorio curdo come territerio libero, autonomo e indipendente dalla Turchia.














Sono andata via dal Kurdistan nel 96. La mia famiglia è originaria di Urfa, ma sono nata e cresciuta a Sirt, il paese dove hanno distrutto la mia casa il 21 marzo del 94, il giorno del capodanno curdo. I militari turchi sono arrivati e hanno impedito la festa e obbligato a spegnere il fuoco. Hanno costretto gli uomini a camminare sui carboni ardenti, costringendo altri curdi a tirarli per gli organi sessuali. Un anziano è stato ucciso. Molti uomini sono stati portati via e le case sono state bruciate. Al loro ritorno molti uomini sono scappati verso la Turchia e l’Iraq senza niente. La mia famiglia è scappata ad Adama. Qui abbiamo cercato di stabilizzarci. In seguito i militari ci hanno detto che non potevamo stare lì. Mio padre ha minacciato i poliziotti di darsi fuoco con tutta la famiglia. Però abbiamo resistito e vissuto un anno in una tenda.
Io amavo cantare in curdo. Avevo creato un gruppo di ragazzi che suonava e cantava e questo corrispondeva al reato di separatismo. Il 21 marzo 95 i poliziotti ci hanno portati via. Mi hanno arrestato, insieme a mio padre e altri, costringendoci a torture psicologiche e fisiche col bastone. Volevano che firmassimo dei fogli in cui ammettevamo le nostre colpe.
Urlavamo loro contro. Un ragazzo è addirittura morto d’infarto.
Poi hanno portato mio padre con gli occhi legati davanti a me e l’hanno torturato minacciandomi di ucciderlo nel caso in cui non avessi firmato. Viceversa hanno fatto con mio padre. Loro hanno deciso di non firmare.
Dopo quindici giorni siamo stati liberati in attesa del processo. Dal 92 i turchi hanno portato avanti un’operazione per far scomparire i curdi. L’articolo 25 del codice penale implica il reato di separatismo. Prima del processo, la mia famiglia ha deciso di scappare e di andare in giro per la Turchia, nascondendosi nelle case.
I poliziotti turchi hanno iniziato a dare ai curdi passaporti finti su pagamento per mandarli via. A quel punto ho preso la decisione di andare via. Mi sono rifugiata a Spalato dove ho aspettato un mese da sola. Poi mi sono infila in un tir e mi sono ritrovata da sola a Milano.
Ho fatto delle ricerche con un giornalista sulle persone che avevano organizzato il viaggio (quel giornalista è stato arrestato a capodanno perchè aveva fatto il segno di vittoria e lo sciopero della fame). Ti consiglio di leggere “erano calde le mani”.
Da Milano sono venuta a Roma dove ho fatto richiesta di asilo politico e dove dopo sette mesi ho ottenuto il permesso di soggiorno.
I primi sei mesi del mio soggiorno ho dormito due ore al giorno. Ho passato tutte le mie giornate da sola. Mi svegliavo alle cinque del mattino a causa dell’insonnia e andavo a Piazza Vittorio a leggere. Soffrivo di insomnia e di ansia. Poi ho scoperto di essere ammalata di talassemia a causa delle bombe chimiche che hanno tirato vicino al mio paese; queste bombe hanno provocato delle mutazioni genetiche.
Ora mi trovo nella condizione di rifugiato politico, per cui secondo la Convenzione di Ginevra, godo di quasi tutti i diritti di un cittadino. I primi sei mesi di permanenza qui ho avuto una forte depressione, ma mi sono curata da sola trasformando la rabbia in una forza costruttiva.
Ho imparato la lingua italiana da sola e ho cominciato a lavorare per il mio paese.  Ho Lavorato per undici anni. Il mio obiettivo è proprio questo, quello di uscire dalla depressione e lavorare per il mio paese.
Il mio sogno è quello di far costruire un centro sanitario in Iraq dove sono scappati i curdi e anche quello di lavorare per la causa curda ad un livello più alto.

Hevi, 30 anni, collabora con l'Associazione UIKI.
 


















Sono originaria di Dyarbakir, ma ho fatto l’università a Merci dove ho studiato tourism administration. Ho quattro fratelli di cui uno in prigione e uno scappato in Germania. Le altre sei sorelle sono sposate. Io vivo con la famiglia. Mio fratello è finito in prigione per la sua attività politica e perchè era un militante del PKK. E' stato condannato ad una pena detentiva di 36 anni e ne ha già fatti 15. Ci siamo avvicinati molto quando lui era in prigione e io ho cominciato a scrivergli lettere. Penso che sia un uomo molto intelligente. Lui studiava medicina prima di arruolarsi nel PKK. Io avevo pensato di entrare nel PKK quando avevo 15-16 anni. Una volta ho detto a mio fratello che non ero felice e che volevo raggiungere il PKK; lui mi ha solo detto che questa poteva essere una decisione solo mia ma che dovevo essere sicura della mia decisione. Mio fratello non ha mai rimpianto il suo destino, il fatto di essersi arruolato e poi finito in prigione.
Terminata l’università ho avuto un periodo estremamente difficile; vivere qui come donna non è affatto facile, dal punto di vista familiare, sociale e statale. La Guerra è molto più dura per le donne, che subiscono violenze maggiori dai militari come lo stupro, fatto per cui spesso dopo non riescono a farsi una famiglia.
Quando avevo 13 anni sono stata arrestata con mia mamma. Ci hanno torturato e molestato. Ci hanno rinchiuso in 50 persone in una stanza piccolissima e per tre giorni ci hanno lasciato senza cibo e acqua. Hanno anche toccato più volte il mio corpo. Non potevo credere che facessero questo ad una bambina di 13 anni. Il motivo per cui ci hanno arrestato è stata la protesta politica dei prigionieri durata 40 giorni. Le famiglie protestavano insieme a loro con lo sciopero del cibo e dell’acqua.
Io e mia madre siamo state arrestate. Subito dopo sono stata malissimo. Ora sto meglio anche se ho dei momenti molto difficili. Non potevo credere come potessero fare questo ad una bambina di 13 anni. Ma poi ho capito che erano folli.
Vorrei fare delle esperienze all’estero anche se vorrei vivere qui nonostante sia molto difficile. Amo questa cultura e la gente curda.
Purtroppo non vedo una grossa possibilità di cambiamento in Kurdistan anche se qualcosa si è mosso negli ultimi venti o trent’anni grazie all’azione del PKK. L’unica soluzione dal mio punto di vista è rimanere in contatto con Ocalan e il PKK.
La mia famiglia vorrebbe che io rimanessi a casa con loro e che non andassi a vivere fuori. Per adesso non voglio sposarmi ma forse in futuro cambierò idea.
Voglio una vita in cui nessuno possa impedirmi di prendere le mie decisioni. Voglio poter fare le mie scelte senza essere forzata da niente e da nessuno.

Ipek, 22 anni, guida turistica e guida di delegazioni internazionali.






















Ho studiato ingegneria e poi sono diventata giornalista. Ho sentito la responsabilità di fare qualcosa per il mio paese e di entrare in contatto con donne e bambini in difficoltà.
Scrivo per giornali come (Stern, Le Monde, Der Spiegel). E’ da quattro anni che esercito questa professione. Non scrivo daily news ma quasi ed esclusivamente di questioni legate alle donne. Cerco anche di sviluppare progetti sociali per donne e bambini. Vivo con la mia famiglia (siamo sette figli ma solo in quattro viviamo con la famiglia). Ero fidanzata ma ora non lo sono più. Non so se mi sposerò o meno.
La condizione della donna è assai diversa da quella di trent’anni fa. Andiamo all’università, lavoriamo, studiamo. E’ in atto un processo di emancipazione molto lento in quanto deve smantellare millenni di regole e convenzioni.
E’ paradossale che io sia stata all’estero dove ho guadagnato i miei soldi ed ero indipendente e adesso che sono qui devo chiamare mia madre tre volte al giorno, non posso bere e non posso uscire la sera dopo le dieci. Posso andare ad Istanbul, ma la mia famiglia non vuole che io la sera esca dopo le dieci in quanto poi la gente pensa male. Sono contraddizioni enormi.
Ho studiato ingegneria prima ad Ankara e poi in Virginia. Successivamente sono tornata a vivere qui con la mia famiglia. All’inizio è stato molto difficile poi ho trovato dei compromessi che mi hanno fatto stare meglio. Ad esempio posso stare fuori la sera fino alle dieci e stare a dormire fuori da amici 4 0 5 volte al mese.
Sono tornata qui perchè sentivo di dovermi occupare della causa curda. Con degli amici che hanno studiato fuori ho iniziato ad impegnarmi per il mio paese, per le donne e per i bambini. Poi la municipalità si è accorta di noi e così ho iniziato a lavorare per la municipalità.
Il mio più grande desiderio è quello di poter fare politica, ma non ho esperienza o un background accademico. Non vorrei fare pubbliche relazioni, ma vorrei elaborare teorie politiche. Vorrei scrivere di politica. Per questo vorrei andare a studiare fuori tre o quattro anni.
Per il mio paese…la situazione del mio paese è il mio incubo e allo stesso tempo il mio sogno. Ogni piacere della vita diventa secondario di fronte a questo problema. Sogno un paese verde e blu con la pace. Lavorare per la pace è l’unico modo per riuscire a stare in Kurdistan. Se vado via devo farlo con un obiettivo preciso, altrimenti rischio di non tornare più. La mia famiglia non vuole che io vada a studiare all’estero, pertanto, io troverò i soldi per farlo da sola, ad esempio con una borsa di studio.

Ozlem Yasak, 29 anni, giornalista free lance.














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